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  • DATA: 27-04-2020
  • LUOGO: Milano

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Massimo e la sua esperienza di psicologo nell’emergenza COVID19

Trasmettere quello che si vive serve spesso a dare senso all’esperienza. Così Massimo si racconta, condivide quello che ha vissuto durante l’emergenza COVID19 nell’Ospedale di Pavia, dove ha garantito la sua presenza e il suo supporto ai medici e agli infermieri sfiniti dalla “bestia”, come la chiama lui.

Nonostante i numeri da capogiro, molti di noi non hanno vissuto da vicino questa nuova malattia, se ne può fare esperienza solo attraverso il racconto di altri, ed è questo lo scopo di queste righe. Uno psicologo come lui è abituato ad avere a che fare con la morte, da anni lavora nel reparto di oncoematologia pediatrica a Pavia. Mette sempre mascherina e calzari per entrare in reparto e all’inizio questa “bastia” sembrava poco più di un’influenza.

Fa fatica a guardare la tv, a seguire i giornali, l’amplificazione e la drammatizzazione per far aumentare gli ascolti gli dà fastidio. Poi la situazione del Coronavirus è diventata sempre più difficile e nel giro di 2 giorni, tra l’8 e il 10 marzo, è entrata in lockdown tutta l’Italia. Gli è stato chiesto allora di dare supporto al personale della struttura ospedaliera, e ha detto di sì, era un’offerta “indeclinabile”.

Il Pronto Soccorso e le parole mute

La prima fase è stata una sorta di addestramento, emozionante ma terrorizzante, per capire le regole per muoversi all’interno dell’ospedale. La prima settimana l’ha poi trascorsa in Pronto Soccorso, per cui era stata creata un’unità extra dedicata ai pazienti COVID.

Se prima, guardando la tv, sentiva parlare di “anziani”, li vedeva lontani da sé… ma una volta in pronto soccorso, in quegli anziani vedeva suo padre, suo zio, suo nonno, e poi alcuni non erano poi così anziani!

La prima grande difficoltà è stata il parlare: per i malati COVID è molto difficile respirare, la dispnea è molto forte, la voce è flebile, se si riesce a usarla. Lo psicologo ha vissulto una grande sensazione di incomunicabilità: gli anziani di solito sentono poco e si regolano sul labiale delle persone per capire, ma con una mascherina a coprire il volto, anche questa dimensione scompare, mentre la controparte – proprio per sperare di farsi sentire – alza il tono della voce, e inevitabilmente cambiare di tono cambia anche il senso di quello che si vuole dire.

 

Questa incomunicabilità genera una sensazione di immobilità che diventa un vuoto di senso.

La rianimazione e la ferita dei medici

Dopo il Pronto Soccorso, lo psicologo ha prestato servizio in rianimazione e lì la dimensione era davvero “apocalittica”. Massimo ha una buona frequentazione con la morte per mestiere, si occupa del fine vita, di malattie psichiatriche gravi dove sono ricorrenti pensieri di morte… pensava di essere allenato! Ma non era pronto al flusso enorme di medici e operatori sfiniti, che cercano un appiglio, che vivono in una dimensione costante di perdita di senso perché spesso non fanno neanche in tempo a sapere i nomi dei loro malati che entrano alle 9 e alle 12 non ci sono già più.

Per i medici questa è una grande ferita, il medico cura il male, ma ora il male è ignoto, non ci si può fare nulla, ci si può solo limitare a mettere la persona nelle migliori condizioni per riuscire a difendersi dal virus, per sviluppare una risposta a livello di sistema immunitario.

Appena vedono sul camice il cartellino “psicologo”, medici e infermieri “gli saltano addosso” confidando di trovare una soluzione alla perdita di senso, il livello di disperazione è altissimo. I medici stessi dicono “non diteci che siamo degli eroi, siamo feriti anche noi”. Ecco qui l’importanza di uno psicologo in ospedale: le persone che aiutano devono a loro volta essere aiutate.

Ci sono molte persone che ti “danno la pacca sulla spalla”, ci sono le telefonate di parenti e amici, ma un essere umano nei momenti di difficoltà ha bisogno di qualcuno che c’è, che è lì davanti a lui, con lui.

Massimo psicologo covid19

Il reparto infettivi e la lucidità dei malati

È stata poi la volta del reparto infettivi. Erano disclocati su tre piani, dove prima c’erano altri reparti come oncologia, malattie tropicali… poi è diventato tutto COVID. Qui c’erano le persone col “casco” e molto più dolore: le persone in questo reparto non sono sedate, ma vigili, lucide, al contrario degli intubati in terapia intensiva. Aumenta la percezione e la consapevolezza di quello che sta accadendo.

Infermieri e medici spesso vedono loro colleghi tra i pazienti, è molto duro da accettare, il virus tocca chiunque, anche se si cerca di evitare il contagio. Ora i numeri in ospedale sono scesi, sono giorni che nessuno viene più intubato, i protocolli stanno avendo effetto, si conosce un po’ di più “la bestia”.

Questa bestia che toglie la sicurezza del respiro è la peggiore delle paure, è come annegare fuori dall’acqua essendo cosciente di ciò che sta accadendo, siamo perché respiriamo! Inoltre, il veicolo del contagio è la relazione, lo stare vicino, tutto quello che per noi è espressione porta morte. Dobbiamo rivedere il nostro modo di essere al mondo, come abbiamo fatto in questi mesi, l’insidia è dietro ai gesti quotidiani. Tutto questo crea panico, e il panico viene da “pan”, il dio della natura. Dopo l’emergenza, come faremo i conti con la mortalità e la brutalità della natura?

L’irricevibile che entra nelle nostre case

Quello che è arrivato è irricevibile, non lo assumiamo come vero, non possiamo accettare di non essere più sicuri! Tornare però alla “normalità” dopo l’emergenza, sarebbe negare ciò che è successo, fuggire via veloci dall’esperienza… oppure possiamo apprendere da quello che ci succede, non scappare: la ricchezza è oggi, i medici sono uomini con dei limiti e i limiti hanno un valore, sapere che “io non ho l’arma che uccide il leone” può essere un’occasione per guardare negli occhi la nostra fragilità e creare più forte un senso di comunità, di appartenenza all’umanità.

A lungo ci siamo creduti onnipotenti, abbiamo guardato al futuro senza stare nel presente. La democrazia del virus ci ha obbligato a stare nelle nostre case, a guardarci dentro, a fare i conti con quello che siamo. L’irricevibile ci è entrato in casa, la sofferenza non può più essere negata in una “vita da happy hour”, è una piega dell’esistenza e se togliamo la sofferenza dalla nostra vita, viviamo solo a metà.

Ora ripartiamo, la vita vince se e solo se incorpora la morte, andiamo oltre attraversando, non negando ciò che è successo. Non cediamo alla soluzione delle scorciatoie, troviamo parole di cura e restiamo ancorati al presente, allo spazio e al tempo della nostra dimensione umana. Questo si augura lo psicologo protagonista di questa storia, questo è il suo messaggio che fa da ponte verso la nostra vita dopo il lockdown.

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