CONDIVIDI

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin

INFO

  • DATA: 04-05-2020
  • LUOGO: Seul

STATO DI PROVENIENZA

italy

Italia

ARTICOLI CORRELATI

Alessandra e la sua esperienza in Corea

Una delle prime cose che ho notato quando sono stata in Corea erano le mascherine indossate dalla gente per strada a causa dell’inquinamento. Tutti i coreani o, in genere, le persone che vivono in Corea come Alessandra, la mattina prima di uscire guardano l’app del meteo e se ci sono i colori giallo o rosso, indossano la mascherina prima di uscire.

La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza coronavirus e la popolazione è tornata a vivere in maniera regolare. In effetti, il Paese non ha mai chiuso, ma ha vissuto dei momenti di paura, più o meno in contemporanea rispetto all’Italia agli inizi di marzo.

Alessandra mi racconta che dapprima tutto si è concentrato attorno a una setta religiosa nel sud del Paese, i cui membri, dopo una sorta di ritiro, erano tornati nelle loro case. Quando i casi legati a questo gruppo sono passati da numeri a una, poi due e infine tre cifre, il Presidente ha comunicato che il Paese era in allerta rossa, la massima. Nonostante non proclamasse il lockdown, messaggi dagli altoparlanti invitavano le persone a stare a casa.

I giorni di allerta

Questo momento è, appunto, coinciso con l’inizio del lockdown in Italia e Alessandra ha vissuto giorni di ansia. Era il weekend e, dalla sua casa di Seul, assisteva a uno scenario apocalittico: suo marito bloccato in Svizzera per lavoro; suo fratello a Brescia, in uno dei centri di massima allerta; i suoi genitori che erano andati per delle visite mediche a Piacenza, decidevano responsabilimente di non fare ritorno al sud. Per fortuna il giorno dopo è andata in ufficio e a Seul la situazione sembrava rallentata ma tuttavia normale, mentre sentiva notizie dall’Italia sugli assalti ai supermercati.

In Corea le persone si sono autoisolate. Alessandra continuava ad andare in ufficio, ma vedeva la città cambiare. Non c’erano state chiusure ma caffè e ristoranti erano vuoti, le strade più silenziose e libere dal traffico. In molti a Seul facevano Home Office e, in una città di 10 milioni di abitanti, questa assenza di movimento si notava eccome!

Alessandra lavora per l’Ambasciata Svizzera a Seul e, un giorno, qualcuno tra i suoi contatti ha ricevuto un messaggio che le indicava di essere potenzialmente nella catena dei contagi

alessandra coronavirus corea

L’uso delle app di tracciamento

Nel 2016, in seguito all’emergenza MERS (Middle East respiratory syndrome coronavirus infection) dell’anno precedente, in Corea è stata modificata la legge prevedendo un abbassamento della privacy. In caso di emergenza sanitaria il Parlamento ha acconsentito al tracciamento di telefono, carte di credito e tramite telecamere della popolazione. Tramite il GPS si possono ricostruire tutti i movimenti. Un messaggio viene inviato dall’agenzia governativa che gestisce l’emergenza sanitaria a tutta la popolazione locale comunicando l’accertamento di casi positivi e relativi spostamenti. Lo scopo è per ognuno di poter verificare eventuale presenza negli stessi posti e tempi di un soggetto contagiato, comunicarlo alle autorità competenti e sotto loro indicazione procedere al test. Maggiore dettaglio sugli spostamenti è offerto dal sito Coronamap.

Inoltre, c’è una app che diventa obbligatoria per chi arriva in Corea e viene mandato immediatamente in quarantena. I residenti sono obbligati a tenere un diario quotidiano e ricevono telefonate e visite dalle autorità ogni giorno. I non residenti, invece, vengono mandati in alcuni residence messi a disposizione dal governo per trascorrere la quarantena, ma non sono gratuiti! In questo modo si è pensato di ridurre gli arrivi nel Paese ed evitare una seconda ondata di contagi, questa volta importati.

Ad aprile la Corea, in base alla reciprocità, ha sospeso i visti per cittadini stranieri provenienti anche da Paesi, come quelli europei, per cui non è necessario visto fino a 90 giorni di permanenza in Corea.

La privacy     

Il tracciamento circolare dei contagi e la possibilità per Alessandra e i suoi colleghi di rientrare in una delle catene, un lento rilassamento e ritorno di molta gente in strada e nei mezzi, hanno spinto l’Ambasciata Svizzera e molte altre a consentire l’home office dopo qualche settimana di regolare attività lavorativa. Segnale, questo, che non era il momento di abbassare la guardia e riprendere le normali attività lavorative e sociali.

Stando a casa e limitando la vita sociale, le giornate lavorative si concludevano con le video chiamate con l’Italia e Alessandra empaticamente avvertiva la sensazione di vivere in lockdown come la famiglia e gli amici in un Paese dove, però, non sono mai state applicate misure del genere. L’identificazione con quello che accadeva in Italia c’è stata soprattutto nel primo periodo, poi anche i connazionali si sono abituati alla nuova condizione e le video chiamate sono diminuite.

Alessandra e il resto degli abitanti in Corea erano potenzialmente stati a contatto con chi poteva trasmettere il virus e lo sapevano ogni giorno tramite i messaggi del governo. È grazie a questi sms che alcuni tra i suoi contatti hanno avuto la possibilità di richiedere il test ed escludere di aver contratto il virus. Chi è invece stato trovato positivo è stato isolatoper limitare i contagi. Rispetto a tutti i dibattiti in corso in Italia sulla privacy, Alessandra crede che se davvero si vuole avere privacy, bisogna abbandonare la comodità degli smartphone. La privacy finisce – in casi di emergenza sanitaria – dove inizia la protezione e il rispetto della salute altrui. Ovviamente c’è sempre spazio per il miglioramento e la possibilità che, in maniera preventiva, le leggi possano essere adattate e la tecnologia lavorare per garantire privacy e evitare disastri sanitari

d74fd8ce 28a7 452e 9cd5 8056d7662519

L’approccio coreano

In generale il popolo coreano è rispettoso di quello che dice il governo, che si esprime con un’unica voce, c’è grande fiducia nelle istituzioni e nel sistema sanitario. In Italia ci sono tante voci e sempre in disaccordo, le persone sono disorientate e sfiduciate, il sistema sanitario affetto da tagli e frammentazione regionale.

In Corea il sistema sanitario è organizzato: si fa lo stesso numero di test che in Italia, ma la forza macchina – ovvero la velocità di processamento delle informazioni – è più rapida. Le precedenti emergenze hanno permesso di non far trovare un Paese impreparato già dai primi casi in Cina. App e kit per i test sono stati sviluppati grazie a un lavoro di squadra tra governo, mondo della ricerca e privato. Non ci si è spaventati nel gestire una situazione di emergenza, in Italia invece questo virus ci ha colto completamente impreparati e ha evidenziato quelle debolezze di cui da sempre sappiamo, ma che nascondiamo sotto il tappeto.

Alessandra ha fatto 6 settimane di lavoro da casa ma alla quinta cominciava a fremere nonostante si trovasse in una situazione confortevole: è stata felice di tornare in ufficio con delle rotazioni coi colleghi. Molte persone vivono in case piccole e tornare in ufficio può essere una liberazione!

Superato il picco delle infezioni in Corea, si sono riprese a pieno le attività e il senso di pericolo è scomparso o resta nascosto dietro le maschere che la popolazione responsabilmente continua a indossare. Non è finita, nuove ondate possono sempre ripartire e bisogna mantenere l’attenzione alta seppur tornando a vivere. Sicuramente ci sarà stata una parte di fortuna, ma il grosso del successo della gestione coreana dell’emergenza è dovuta alla capacità organizzativa delle istituzioni e alla cultura confuciana del rispetto delle regole e del prossimo.